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Che cosa ci definisce

mi accingo ora a seguire una inspirazione che qualche tempo fa mi è venuta, ossia distillare quale sia il succo che da ciascuno di noi si protrebbe spremere.
Ciò che ci definisce è, da una parte, quel che di noi subito salta all’occhio di un buon osservatore, e dall’altra, qual che diremmo di noi, dovendoci definire, in poche, significative parole.
Una delle cose più interessanti che potremmo vedere è quanto le due descrizioni differiscano. La parte curiosa è che quanto più distano, tanto più uno dovrebbe porsi domande profonde, ma al tempo stesso, quanto più distano, meno uno è interessato ad ottenere delle risposte.
La materialità – cosa c’è di più comune oggigiorno, che essere attaccati a qualcosa di materiale? Anche solo il costante bombardamento di pubblicità sarebbe sufficiente a spingerci tutti in quella direzione, visto che il meccanismo più comune di vendita consiste nel farci balenare immagini di felicità e poi collegarle a qualcosa che dobbiamo comprare. Purtroppo, quando quella cosa ce l’abbiamo, riemerge inesorabile quel senso di vuoto che ci aveva spinti ad ordinarla, e siamo daccapo.
Esiste tuttavia una ragione più sottile che preme in quella direzione, ed è che la forma di pensiero dominante nel mondo scientifico pone nella materia il fondamento di quel che siamo, relegando le parti più nobili dell Essere umano, come mente, Anima o Spirito, sempre che non li neghi, al ruolo di fenomeni emergenti, effetti collaterali di una realtà sostanzialmente materiale.
Chi ha subito gli effetti nefandi di questi condizionamenti, ricava un piacere nel possedere, nel comprare, ma soprattutto, un senso di perdita e smarrimento nel rovescio della medaglia, quando qualcosa gli viene sottratto. Ma il primo è un piacere assai breve, che rapidamente si trasforma nel secondo, quando l’oggetto bramato passa di moda, o è perduto.
Il vago senso di insoddisfazione che assale chi si definisce nella materialità, quando questa immancabilmente lo delude, è un fugace bivio, che potrebbe condurlo a quastionare il proprio paradigma vitale. Approfittarne è questione di un attimo fuggente.

La appartenenza – i simboli che si indossano, i tatuaggi, i modi di vestire, di muoversi e parlare, sono qui l’espressione di una appartenenza, il marchio del bestiame che appartiene a qualcuno. La nostra sovranità personale è perduta, assorbita e sussunta in una mente di gruppo della quale siamo diventati un clone. La nostra originalità ed indipendenza non esistono, più. Chiamiamo “nostra opinione” la ripetizione del pensiero del gruppo che ci ha assorbiti.
Se ci viene da pensare con superiorità a qualcuno che conosciamo, non tralasciamo di dare un’occhiata attorno a noi stessi, per scorgere i simboli di qualche allevamento al quale non ci samo resi conto di appartenere. Le religioni di massa fanno purtroppo parte di questo fenomeno, con santini ed icone, come pure le ideologie di massa, e tutto quello che è ideologia o adorazione. Le masse, per definizione, seguono, ed è altrettanto parte della loro natura la incapacità di questionare chi o che cosa seguono. Se qualcuno comincia ad aprire un occhio e fare domande scomode, rapidamente viene identificato come corpo estraneo e messo alla porta da forze che non sempre riusciamo a capire.