Bisogna prenderli al volo

La presa del potere di un pensiero che si vuole appropriare della nostra mente, avviene in maniera graduale, nel corso di un brevissimo lasso di tempo.

Nella mia mente, per esempio, è meno di un secondo, il tempo che ho a disposizione per fare fronte all’assalto di un pensiero invasore.

Se non agisco subito, il pensiero mi avvolge, e da quel momento entro in quella situazione di assenza più o meno pronunciata, per la quale posso sentire vagamente il pensiero che “racconta la sua storia”.
Ma è una voce che “viene da lontano”, qualcosa che avverto e non avverto: mi accorgo di tutto ciò solo vagamente, e di solito solo negli ultimi istanti della mia assenza: quando il pensiero parassita sta per lasciare la presa, per un secondo o due riesco a sentirne la voce.

Qualcuno diceva,  con un’immagine molto azzeccata, che, dei nostri pensieri vediamo solo la coda che gira l’angolo mentre vanno via: è come quando qualcuno taglia l’erba vicino a casa nostra: dopo un po’ non facciamo più caso al rumore, ma quando finisce, abbiamo una strana sensazione, ossia che abbiamo “cominciato a sentire” quel rumore coscientemente solo un poco prima che smettesse.

Ma torniamo un passo indietro: il pensiero ha preso posto nella mente e mi ha addormentato…

L’unica cosa possibile …

E se non avviene un piccolo miracolo, ossia il risveglio, a farmi vedere l’invasore, esso farà la sua “rappresentazione” usandomi come burattino, facendomi pensare, dire, o fare qualcosa (che tutti i miei amici e parenti potrebbero prevedere, poiché queste azioni sono molto ripetitive).

Di fatto, “non avrò avuto scelta”, e se sono onesto, mi accorgerò che in nessun momento ho veramente sentito la possibilità di fare altrimenti da come ho fatto. Ho fatto l’unica cosa possibile in quel momento per me, così come una macchina, in un dato momento, può solo fare quello che le permettono le leggi della fisica.

… ma non per un uomo sveglio

Ma se “stavo di vedetta” all’arrivo del pensiero invasore, allora posso agire in quel breve secondo e mi si aprono varie strade.

  • Posso sentire con intensità la “distanza” fra me ed il pensiero, la quale conferma che io non sono quel pensiero: devo “apprezzare” l’importanza di questa distinzione io <—-> pensiero, per impedirgli di avvolgermi.
  • Se ho già assaporato abbastanza la non-identificazione con i miei pensieri, posso appoggiarmi a questa consapevolezza per non credere ai miei pensieri. Li snobbo, non gli do importanza, anche se vengono a irretirmi con parole e sentimenti pesanti, per spingermi ad ospitare, per l’ennesima volta, una scena di rancore, o di tristezza.

C’è chi consiglia di effettuare una preghiera perché questi pensieri siano distrutti. Ho provato questa pratica per vari anni, ma non vedo un reale vantaggio.

Ho notato che ciò che realmente ci difende dai pensieri invasori è il fatto di stabilire fermamente questa distanza, distinzione, fra noi e l’invasore.

Questo però, non può essere fatto semplicemente osservandosi, o come dicono alcuni “auto-osservandosi”, se non si mette in grande rilievo che tale osservazione della propria mente ed emozioni deve appoggiarsi saldamente sulla “sensazione di essere”, l’autoricordo di cui parlavamo in un altro articolo.

Una nota supplementare per chi ha fatto parte di scuole nelle quali si pratica l’auto – osservazione

Auto-Osservazione ed Auto-Ricordo

Auto-osservarsi, senza il ricordo di sé, ci espone, al rischio che l’osservatore degli invasori sia una parte di noi che con l’essenza non c’entra nulla, ma che può essere un altro parassita, che a qual punto si incaricherà di fare tutte le cose che gli fanno piacere e specialmente giudicarci colpevoli e meschini per ogni bruttura che vede in noi, visto che esso non sa che non sono cose “nostre”.

Conosco amici che, inquadrati in questo ordine di cose, finivano per disprezzarsi sinceramente e parlar male di se stessi ad ogni occasione. Sembrava quasi che, anziché la loro essenza, parlasse con la loro bocca appunto una sorta di aguzzino interiore, che aveva il compito di tenerli sotto controllo.

Infatti, oltre a farli sentire indegni (ed in colpa per questo) li faceva anche sentire perennemente in debito proprio verso colui chi aveva impiantato in loro questo “schiavista interiore”, al quale era stata aperta la strada con l’abitudine ad auto-osservarsi senza essere prima presenti a sé stessi.