Il teatro ci parla di noi stessi

Un artificio narrativo conquista il pubblico da secoli, ed è quello cosiddetto dell’agnizione, ossia il momento in cui il personaggio, dopo aver visto e magari combattuto a lungo qualcuno, ma senza capire chi fosse, improvvisamente “comprende”, scopre di essere suo figlio o suo fratello.  Magari è un neo sulla pelle che si scopre durante una lotta, o una parola detta in un certo modo, o un gesto che non potrebbe essere di nessun altro, che svela la vera identìtà del personaggio prima combattuto: questa scoperta è fonte di uno sconvolgimento per il protagonista, il quale è costretto a rivedere completamente le proprie posizioni, ed atteggiamenti, magari preso da un terribile rimorso, per il male fatto ai danni di un innocente ed anzi, qualcuno amato pur senza rendersene conto.

Se una situazione del genere ci piace e conquista, é perché sappiamo, sotto sotto (cioé nella coscienza) che ha qualcosa di vero che potrebbe essere nostro. E questo non si puó solo verificare nel caso di un personaggio sotto mentite spoglie, ma anche dentro di noi, quando si dá, per una qualunque ragione, il salto al livello di coscienza superiore, e di colpo vediamo la realtá dove prima vedevamo solo una maschera.

Il cambiamento puó  essere totale in noi, ma piú spesso avrá la stessa entitá del salto di coscienza che abbiamo fatto, ossia potrá essere minimo o grande, secondo I casi.

Quel neo, quel modo di dire, quel gesto, ossia i dettagli che colpiscono l’attenzione dell’eroe, facendo scattare la scoperta, sono la controparte dei segnali di risveglio che possiamo incontrare lungo la strada, e che ci consentono una transizione allo stato del ricordo di sé, il quale, naturalmente, ha la dote di permetterci di rimediare agli errori commessi, e permetterci un cambio del modo di vedere e pensare (questo vuol dire “pentimento” nel suo significato originale: pensare in modo nuovo).

Questi segnali sono circostanze, parole, immagini che hanno il potere magico di causarci un istante di riveglio. Per esempio, sentire qualcuno che parla di ricordo di sé, é sempre, per me, un segnale di risveglio. Ma anche accorgermi che sto per dire qualcosa in maniera automatica e ho proprio “voglia di dirla”, é ormai un segnale che spesso mi regala un istante di coscienza, ossia un momento nel quale posso prendere la decisione di dire o non dire quella cosa, il che é, per me, un grande momento di libertá.

Ordinariamente crediamo di poter scegliere quello che diciamo, ma se siamo onesti e ci osserviamo abbastanza a lungo, non é difficile scoprire che parliamo ed agiamo im modo meccanico. Se quel certo atteggiamento della moglie o di un collega “ci irrita”, per esempio, inevitabilmente reagiamo nel solito modo (che tutti conoscono di noi). Un cambio puó solo venire dal territorio della coscienza, ossia da uno stato di coscienza diverso, che ci permette un vero istante di scelta, di libero arbitrio nel vero senso della parola. Nessuno é dotato di questa facoltá nello stato di sonno nel quale versa quasi sempre: si tratta solo di un’illusione che ci fa piacere alimentare.

I segnali del risveglio, da quello che ho visto su di me, sono un patrimonio molto personale, che coltiviamo dentro di noi, a seconda di dove e come usiamo la nostra attenzione nei rari momenti di risveglio, per creare l’opportunitá che ne vengano altri, e dunque alimentare in noi stessi uno stato di coscienza sempre piú alto durante le nostre giornate (e anche nella notte).

Se per esempio quando mi sento sveglio, mi dico che ogni volta che vedo quella certa persona dovró ricordarmi di me stesso, sto costruendo un segnale che mi aiuterá all’incontro successivo, ad essere in una qualche misura, piú presente che la volta precedente.

Altro segnale di allarme, che mi desta, é quando sento dentro di me che arriva un giudizio su qualcuno: dentro la mia mente, si sta formando un parere, di solito negativo, su qualcuno, in maniera meccanica: spesso, questo mi desta, e mi da la possibilitá di sospendere il giudizio e godere di un altro momento di libertá, una piccola ma vera felicitá che mi viene donata in quell’istante, poiché ho colto la “occasione di non fare del male”.

Ogni giudizio meccanico che formuliamo, infatti, va a rafforzare le nostre convinzioni sulla nostra presunta superioritá, su quanto siano miserabili gli altri, e ci sprofonda ulteriormente nel nostro sonno fatto di illusioni di grandezza e disprezzo generalizzato verso il prossimo.

Una nota a margine

la scrittura teatrale e cinematografica di qualità è sempre quella che ci mette da un punto di vista specialissimo: il protagonista, infatti, è colui che può vivere un cambio interiore, e se il film è di quelli che danno soddisfazione, questo cambio avviene.

Fateci caso: nessuno dei personaggi al di fuori del protagonista sperimenta mai un cambio: il cattivo rimane cattivo, gli sciocchi restano tali, ma il protagonista può invece redimersi, migliorarsi, pentirsi, o in certi casi, anche vivere una completa trasformazione.

Questo si deve al fatto che il protagonista assume la posizione dell’essenza, cioè l’unica parte davvero viva che c’è in noi, quella che davvero può evolvere, sempre che ci sia, come di solito avviene in una buona trama, una “presa di coscienza”, la quale viene sotto forma di scoperte, mediate però sempre dall’esperienza fatta in prima persona.

In generale vedremo che il protagonista deve guadagnarsi queste scoperte: qui sta la parte avventurosa della storia, queste sono le scene che poi riguardiamo con gusto varie volte.

Le scoperte costano fatica e sofferenza, o perdite molto importanti, che costituiscono una sorta di pagamento, ma questo fa parte di un percorso necessario. Tutto ciò che l’eroe perde, ogni goccia di sangue o sudore che ha dato, infatti, lo conduce ad un livello di coscienza più alto, ossia la sua situazione finale, nella quale lo salutiamo, ammirati o commossi, sui titoli di coda del film.

Altra cosa è la sofferenza dei cattivi, la quale porta semplicemente alla loro distruzione. La sua controparte interiore è quel vivere senza mai sollevarsi dallo stato meccanico della coscienza addormentata, che non da nessun costrutto ma invece ci affossa sempre più.